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giovedì 14 aprile 2011

Il nostro meridionalismo - di Canio Trione –


Il nostro meridionalismo - Canio Trione – (13.8.93)
L'ultimo pezzo di millennio ha riservato esperienze impreviste.
Numerosi, immensi apparati statali, frutto delle ideologie e delle trascendenze, sono franati miseramente. Dal nazismo al comunismo la caduta di quegli apparati non è stato che l'aspetto palpabile dello svuotamento degli ideali che li giustificavano sotto l'aspetto culturale.
Però nell'ultimo scorcio di secolo, proprio quando la penetrazione dei media è divenuta capillare, la base perde progressivamente la loro tutela e si affranca da quanto voluto dai vertici. Infatti mentre i condizionamenti dei media sono divenuti pervadenti fin negli aspetti più minuti ed elementari della vita, proprio quegli stessi condizionamenti fungono da lievito di una crescita culturale ed umana originale, consapevole e comunque tale che nessun ideale convince più nessuno. Crescita che è diversa da luogo a luogo, da etnia ad etnia. Per cui a parità di messaggio, si registra una "traduzione" localistica che fa si che le specificità delle varie comunità vengano rafforzate dai nuovi mezzi materiali e culturali disponibili. Dunque da un lato questo fenomeno incarna il tramonto del ruolo del Vertice quale è stato inteso fino ad oggi, dall'altro esso pone le basi per una contemplazione dell'uomo in quanto tale che evidentemente è la radice su cui dovrà sorgere la nuova pianta di ognuna delle comunità umane.
La natura del fenomeno è, ancorché profonda ed imprevedibile, connaturata in quella dell'attuale fase storica e si presenta come dato oggettivo dell'analisi politico-culturale, in tutti gli angoli del globo. Come un ordine di scuderia, ovunque l'ideologia e il centralismo che la incarna vengono visti come "vecchi" ed inattuali. Negli Stati grandi come in quelli piccoli il nuovo irrompe e demolisce "muri" e regimi ad Est come ad Ovest. Questa specie di irredentismo si impone nelle Isole Britanniche (Ulster e Scozia), nell'Unione Sovietica, in Cecoslovacchia, in India, in Somalia, in Jugoslavia, negli USA, in Irak, in Turchia, in Libano, in Israele, nello Sri Lanka, in Italia, nell'Europa Danubiano-Carpatica, in Egitto, in Algeria, in Sudafrica, in Mozambico, ed è allo stato latente in Cina, Spagna, Francia, Grecia, Bulgaria, Cipro, ecc. Anche in Stati caratterizzati da forte omogeneità interna o addirittura da un ordinamento già federalista si devono fare i conti con una recrudescenza xenofoba (Germania, Svizzera) dagli stessi connotati e della stessa natura dell'irredentismo di cui sopra.
Dunque il fenomeno è di pari vastità e profondità ad Est come ad Ovest e il numero degli Stati coinvolti fa capire che la causa del fenomeno non è il livello del reddito o dei consumi per cui la recessione che imperversa sul pianeta non ne è l'unica matrice.
Questo clima così diffuso induce due riflessioni principali: le comunità umane, da un lato sono e si sentono più sole, dall'altro sono portate ad una sempre maggiore consapevolezza e dunque ad un maggiore protagonismo.
Complice la rarefazione dei mezzi economico-finanziari, i lituani come gli azeri, i pugliesi come i portoricani degli USA, gli scozzesi come gli zulu, sanno come non mai che dal "centro» non potrà venire più nulla.
Il collasso dei centralismi lascia i poveri e i deboli soli con se stessi. Essi ora sanno che le promesse che erano state fatte loro, non saranno mantenute: gli ospedali, le pensioni, i posti di lavoro per sé e per i propri figli, la difesa dalla malavita, una cultura decente per le nuove generazioni, financo l'attesa di acqua potabile e di aria respirabile sono in serissimo dubbio. La solitudine di questi individui e di queste comunità è giorno dopo giorno aggravata dalla esosità degli apparati statali.
Essi infatti avrebbero dovuto dare più di quel che prendono, al contrario oggi essi prendono molto di più di quel che danno. Questo fatto da un lato delegittima le sovrastrutture burocratico/politiche e dall'altro fa dell'affrancamento da quei condizionamenti una ragione di nascita e di vita per le istanze autonomiste. Lo spettro della morte per inedia spinge immense masse a chiedere di poter determinare il proprio futuro liberi da quei condizionamenti o addirittura ad emigrare per cercare altrove un domani che comunque significhi almeno la sopravvivenza.
Poi vi sono le comunità con un grande passato, con una cultura diffusa e profonda.
 Non parlo di un fatto essenzialmente o principalmente scolare, mi riferisco a quell'insieme di sensibilità, usi, ritualità sociali ed economiche, e attese di uniforme comportamento altrui che, nel loro insieme, costituiscono un modo di vita nettamente separato e distinto da quello di altri gruppi. Esse non emigrano ma sono ugualmente sole con il proprio futuro. Esse vogliono e chiedono a gran voce di recuperare la responsabilità del loro destino rivitalizzando una cultura fatta di secoli di esperienze, e che è oggi narcotizzata ed offesa.
Parlo naturalmente delle comunità antropicamente, culturalmente, sociologicamente e storicamente omogenee al proprio interno e che sono immerse in realtà sociali più grandi o condizionate da potenze esterne.
È difficile cioè credere che gli ucraini o gli irlandesi possano emigrare e, qualora qualcuno di essi lo dovesse fare, comunque si porterebbe dietro e dentro la specificità e la originalità della sua etnia costituendo lì dove dovesse fermarsi, un piccolo fazzoletto della sua patria di origine. Essi sono sempre più consapevoli della validità dei propri usi e delle proprie tradizioni, essi sanno che quel che sono capaci di produrre è sempre stato valido ed economicamente vincente, in ispecie adesso che è di pressante attualità la difesa dalla pervadenza dei centralismi; ed essi attendono che questo torni ad essere vero ancora una volta. Tutto ciò sta ad indicare una crescita di consapevolezza di enorme originale vitalità.
Il Sud Italia è certamente, oggi, un territorio fortemente penalizzato; in esso la popolazione soffre di un disagio palpabile. Essa dopo essersi svenata perché l'Italia si unisse e si industrializzasse, oggi deve rinunziare all'essenziale perché si paghi un debito pubblico detenuto per 1'80 per cento da non meridionali. Le conseguenze sono sotto gli occhi di tutti: la mancanza di lavoro alimenta le legioni della malavita, fondare un'azienda è impresa suicida, il diritto non è più la regola neanche nei rapporti commerciali e di investimenti non meramente speculativi, neanche a parlarne.
Però queste popolazioni hanno accumulato nei millenni strati di cultura imponenti. Negli occhi e nei ricordi delle genti del Sud sono vive le immagini di grandi patriarchi buoni e severi, di rispettate divise, di squadre operose di lavoratori, di messi infinite falciate sotto il sole impietoso, di grandi saloni dai soffitti minuziosamente decorati, di merletti ricamati all'ombra delle mura paterne.
Tutto ciò non è stato invano. Cresce in ognuno l'anelito di quel sereno equilibrio. Un equilibrio di cui oggi manca l'operosa onestà, la certezza dei contorni, e la profonda umanità.
La ricerca dell'arredo d'epoca, del partner commerciale di "razza", dell'azienda di antica data, del prodotto tipico e puro, sono espressioni concretamente rivelatrici dello stesso anelito, della stessa sete di onestà, certezza e umanità.
A chi mi chiede come si possa oggi sopravvivere in un pianeta dalla concorrenza cosi' spregiudicata senza tecnicismi e senza una finanza al limite del codice penale, io devo rispondere prima di tutto con un atto di orgoglio e di fede incrollabile nei nostri valori. In un momento immediatamente successivo devo rilevare che se il nostro mondo è così spietata-mente concorrenziale lo è perché tutti producono le stesse cose: la famigerata classe di economisti che ci ha governato fino ad oggi utilizza, per misurare la ricchezza di un popolo, dei parametri che sono sempre gli stessi di qualunque Stato si parli: il reddito di un milione percepito sulla costa azzurra o a New York viene confrontato con lo stesso milione letteralmente conquistato o "inventato" nella casbah napoletana o algerina! Indi i governanti sono portati a credere che il bene dei loro governati coincida come è accaduto per le popolazioni ricche con la sua industrializzazione, con il livello dei suoi consumi, con il livello del reddito monetario percepito quali che siano poi i rifiuti che produce, l'aria che respira, i servizi sociali di cui gode... in una parola, la qualità di vita che gli si rende possibile. Qualcuno comincia a modificare quei parametri ma ancora oggi si continua a credere e dunque a voler produrre, ovunque le stesse cose.
Si scopre però che vi sono Stati ricchissimi – Svizzera, Austria, Danimarca, Norvegia, Israele, Hong Kong, Singapore, Australia che non producono automobili, siderurgia, chimica, aeronautica... Né vale dire che si tratta di Stati piccoli che beneficiano per il proprio benessere delle tecnologie "grandi" di potenti Stati vicini. Infatti quegli Stati piccoli dispongono di dimensioni finanziarie e tecnologiche di prim'ordine (basti pensare alla Svizzera nell'alimentare e nella finanza ma anche Hong Kong, Formosa, Corea)
e poi non esistono tecnologie tanto grandi da essere fuori dalla portata di quelli che per lo spazio su cui insistono vengono considerati piccoli. La forza della finanza o della tecnica (solo per esempio) coniugata alla libera circolazione di capitali, merci e persone consente a tutti gli Stati di controllare agglomerati industriali anche se non allocati al loro interno di dimensioni planetarie.
Peraltro il Sud non ha bisogno di un mercato di distribuzione di prodotti industriali di dimensione sovraregionale non avendo espresso nessun gruppo industriale la cui dimensione produttiva abbisogna di mercato sovranazionale. Si rammenta a questo proposito che alla borsa valori di Milano non è quotata nessuna società industriale meridionale e tutti gli insediamenti industriali collocati al Sud e che hanno vocazione nazionale e sovranazionale (Italsider, Ilva, Aeritalia, Fiat, Enichem...) sono stati messi al Sud da altri che avrebbero potuto collocarli in qualunque altra parte senza nulla modificare nei loro programmi.
Dunque la dimensione sovraregionale e industriale non serve al Sud in nessuno dei casi che ci hanno fatto credere essenziali:
1)         non per dare mercato alle proprie industrie perché non ne ha;
2)         non per favorire l'insediamento di strutture produttive industriali altrui che non lascerebbero qui che le briciole e brucerebbero il terreno alle aziende locali in via di formazione e crescita;
3)         non per favorire la nascita di strutture industriali locali che non avrebbero futuro, visto l'eccesso endemico di produttività installata in Occidente.
Per cui la strada meridionale al progresso pur non potendo essere un ritorno al passato, né un isolamento che sarebbero inattuali e suicidi è diversa da quella industriale classica ed è diversa da quella del Nord Italia.
E qui si ritorna all'assunto originario: bisogna capire che è necessario, per introdursi nel club dei ricchi, produrre qualcosa che gli altri non hanno e utilizzarla come merce di scambio privilegiata per ottenere i beni prodotti dalle società industrializzate.
Peraltro si sta verificando un fatto di portata epocale: la forza contrattuale che aveva il pro-dotto industriale classico si sta sgretolando sotto i colpi della concorrenza interna al mondo avanzato. Per cui il futuro non sarà più del prodotto industriale che conosciamo, cioè frutto di produzioni di serie con contenuto minimo di materia prima e molto elevato di capitale tecnico, ma di quello ad alto contenuto di creatività di cui l'artigianato, la telecomunicazione, l'arte nelle sue forme più varie (dall'architettura al design, alle forme innovative di promozione, di imballi, l'alimentare alternativo...) sono l'aspetto ancora imperfetto ma già vivo sotto i nostri occhi.
Dunque neanche il futuro giustifica un nostro impegno attuale in termini di programma industriale.
L'individuazione del percorso alternativo da compiere certo non può essere come già sottolineato un tuffo nel passato. Anzi l'esistenza di quell'immenso parco tecnologico che va sotto il nome di tecnologie intermedie ci apre la porta ad un infinito spazio di attività interamente protese sul futuro nel quale si può ottenere il livello qualitativo dei beni e servizi di cui godevano i nostri nonni a costi altamente competitivi e con flessibilità produttive impensabili per gli impianti vocati a produzioni di massa. Dall'agroindustria all'artigianato, dal commercio alla piccola e media industria, la strada per tornare al prodotto tradizionale è straordinariamente facilitata da un enorme numero di utensili di elevata tecnologia e di basso costo che fanno aumentare a dismisura sia la produttività del lavoro, sia la perfezione del prodotto finito sia ancora la modificabilità delle produzioni a fronte delle metamorfosi della domanda; il tut-to con emissioni inquinanti vicini allo O e assorbimenti di energia risibili. Stesso discorso si sta facendo per tutti i prodotti nuovi, ad alto con-tenuto moda; tipico l'esempio dell'abbigliamento. Anche qui la creatività supportata dalla economicità e dalla incredibile flessibilità delle tecnologie leggere produce risultati conclamatamene vincenti. Per cui il primo dei pilastri su cui deve poggiarsi il nuovo modello di sviluppo è la riscoperta delle nostre origini attraverso l'uso delle tecnologie leggere.
È egualmente inequivocabile che, quale che sia il prodotto prescelto, quelle tecnologie portano a quantità prodotte e specializzazioni produttive tali che andranno vendute ad utenti e clienti sparsi su un territorio ben più grande di quello regionale, di cui sono espressione. In questo senso infatti anche l'ampiamente perfettibile attuale agroindustria già presenta aspetti di dimensione sovraregionale: basti pensare alla capillare diffusione mondiale dei nostri vini, salse, paste alimentari, olii etc... Ma è evidente la differenza tra questa e la sovraregionalità della siderurgia, dell'aeronautica, dell'automobilistica, della chimica... Mentre le prime sono radicate sul territorio su cui insistono (per cui utilizzano materie prime, forza lavoro, tecnologie locali) per cui lasciano in esso la grandissima parte del valore aggiunto realizzato, le seconde hanno ricadute occupazionali locali limitate per unità di prodotto e dunque, anche se fisicamente collocate in una regione svolgono la gran parte del loro business molto lontano da quella sede: acquistano lontanissimo le materie prime, la mano d'opera specializzata, il marketing, i semilavorati, la robotica... e vendono i loro prodotti in un mercato che è globale, mentre nel luogo in cui sorgono, utilizzano la manovalanza generica, quella che viene pagata così poco da risultare antieconomico andarla a prendere da altre parti. Dunque in un area da sviluppare andrebbero preferite senza ombra di dubbio le prime e non le seconde.
Un altro pilastro deve essere la ottimizzazione dell'impiego delle risorse locali. Ovunque nel mondo questo è stato un comandamento che ha seguito le industrializzazioni in ogni loro passo. Nel Sud d`Italia invece si è sprecato tutto quanto esisteva perché gli si attribuiva scarso valore.
Esempio macroscopico le biomasse. Immense quantità di prodotti agricoli di prim'ordine distrutti sotto i cingoli perché altri prodotti agricoli – probabilmente di importazione, meglio impacchettati, più reclamizzati, in una parola più industriali! si possano vendere. Oggi financo la sovrastruttura CEE si è accorta dell'importanza decisiva di questi prodotti ai fini energetici e da Bruxelles 'arrivano significativi incentivi alla produzione di biomasse vocate alla trasformazione in combustibile per autotrazione.
Ora, il fatto di avere questo tesoro nelle mani, bruciarlo perché si tengano alti iprezzi dei prodotti altrui, ed attendere l'imbeccata CEE per accorgercene, è quanto meno sconcertante. Spero comunque che ci si stia rendendo conto che non è più tempo di sprechi e che l'ambiente anche come produttore di energia genera un business formidabile ed una carta vincente – specie sotto il profilo occupazionale per le terre ad elevata vocazione agricola come quelle del Sud d'Italia.
Terzo fondamentale pilastro è il nostro ruolo nella più grande area mediterranea. Finché saremo fornitori di manodopera e materie prime alimentari per aree più fortunate o intraprendenti, noi rimarremo ad esse subalterni. Se invece invertissimo il ruolo e ci ponessimo come fornitori di prodotti e servizi avanzati per aree ancora da sviluppare ottenendone in cambio manodopera e materie prime, riusciremmo ad ottenere da Albania, Croazia, Bosnia, Kossovo, Macedonia, Serbia, Grecia, Nord Africa, i vantaggi che per più di un secolo abbiamo profuso al Nord d'Italia.
Questa linea ha tre elementi qualificanti: primo ha visibilmente potenzialità enormi che farebbero decollare la nostra struttura produttiva a livelli impensabili: basti pensare all'impegno di ricostruzione necessario in tutta l'ex-Jugoslavia e alla ricaduta interna che ciò implica, per capire quanto grande è la scommessa che ci è aperta davanti.
Secondo: questa, che è una chance per le nostre popolazioni, è una esigenza essenziale per quegli Stati e per la stabilizzazione del loro equilibrio interno. Infatti se noi non svolgessimo questo ruolo come potrebbero uscire dalla situazione in cui si sono cacciati?
E se quelle popolazioni divenissero preda del tipo di sviluppo tedesco che garanzia vi sarebbe che quei giovani Stati non divengano province di un Impero troppo vasto perché la democrazia trionfi al loro interno? E lo stesso equilibrio europeo e mondiale che fine farebbe?
Terzo: se una posta in gioco così elevata viene gestita dalle burocrazie romane, che possibilità ha di essere valorizzato? Nella migliore delle ipotesi si originerebbe una tangentopoli balcanica.
Peraltro a Roma si crede nella unicità della strada UEM per la risoluzione dei problemi geo-politici europei e si considera l'area danubiano-carpatica strutturalmente povera e culturalmente lontana per avere un senso stabilizza-tore nel più grande gioco che si sta svolgendo sul Reno e a Bruxelles.
Per cui e per sintesi: piccole e medie aziende dotate di tecnologie leggere, operanti in grandi spazi privi di dogane, ed espressione delle culture e delle materie prime locali.
Dunque l'esigenza di dotarsi di un proprio sistema economico autonomo diventa essenziale per la stessa sopravvivenza delle genti del Sud, e quando si parla di autonomia non si parla di separatezza o di divorzi... quel che serve è una diversità nel numero dei partners commerciali, diversità e numerosità che ci preservi dalla dipendenza troppo stretta da una o più aree che possono essere troppo esposte ad eventi negativi futuri. Dipendenza che inoltre si sta rivelando ingombrante anche per il Nord Italia che in periodo di crisi preferirebbe essere alleggerito da qualunque compito non inerente alla propria area.
Peraltro il nostro pluridecennale legame con il Nord Italia ha comportato troppo spesso risvolti nefasti. Ogni loro raffreddore è diventato per noi polmonite: quando la disoccupazione nazionale va al 10%, al Sud si registra il 25% e al Nord il 2%; quando i prezzi crollano, al Sud le ditte chiudono e al Nord vanno in Cassa Integrazione; quando i prezzi salgono, il nostro reddito sale del 5% annuo e il loro del 10%.
Questa non è dualità del tipo di sviluppo. Questi sono due tipi di sviluppo di cui uno ha la capacità di scaricare sull'altro i costi – ormai anche ambientali – del proprio. Ma questo non si verifica per la malvagità del più forte ma per le regole intrinseche che quel tipo di sviluppo ha e si è date. Diverso sarebbe se il Sud avesse un altro partner economico del calibro del Nord, (appunto nell'area mediterranea) sia per la vendita del prodotto finito sia per l'acquisizione di materie prime. Questa possibilita ora si è aperta ai nostri orizzonti e attende di essere colta, Così come in tempi di recessione la grossa industria trasferisce più produzione possibile dalle aree più care a quelle più economiche, nello stesso modo i nostri produttori potrebbero continuare a produrre lo stesso prodotto in aree a costo di produzione più basso e convertire le aree più care ad altra destinazione produttiva più redditizia. Questa possibilità sarebbe benvenuta nelle aree pro tempore più sfortunate e costituirebbe ragione di progresso per l'economia domestica trasformando un fenomeno di per sé negativo la recessione in uno spunto foriero di gran positività per tutti. Al contrario oggi il passaggio recessivo si traduce interamente in riduzione del reddito interno a mezzo di maggiore disoccupazione, minori profitti, maggiore carico fiscale, aumento delle insolvenze.
Non c'è bisogno di essere navigati burocrati o manager alla moda per capire che nessuno a Roma o a Milano si preoccuperà mai di prendere anche solo per un minuto in considerazione opzioni del genere.
Ancora più promettente è la conclusione di un'altra riflessione: la comunità nazionale italiana avrebbe tutto l'interesse a che il Sud si proietti in uno spazio quale quello detto perché in un momento successivo all'immediato il ruolo dell'Italia nel Mediterraneo, nell'Europa e nella comunità atlantica verrebbe riscritto a tutto vantaggio anche del Nord. Quel che manca è una temperazione della cultura dell'immediato, della politica che deve avere un suo tornaconto nello stesso momento in cui si pone in essere, della prassi delle emergenze. La politica degli statisti, quella di ampio respiro, quella che lascia la sua traccia benefica in anni e generazioni a venire, è una politica di cui siamo stati privi in tutto l'arco repubblicano, per cui oggi orfani di un disegno organico, siamo ridotti a mangiare a sera quel che produciamo la mattina e a farci rimorchiare dal carro che, pro tempore, appare più in buona salute.
Scandalosa ad esempio la nostra politica monetaria recente: primissimi assertori di stabilità monetaria e di allucinanti "convergenze", i reggitori dei nostri destini monetari sono stati grandi paladini della lira forte fino al 17/9/92 e per questo ci siamo fatti rimorchiare dalle follie convergentiste teutoniche; poi gli stessi uomini, dal giorno 18 di settembre di quell'anno sono saliti sul carro di opposta convinzione prima inglese (che poi sarà fatalmente anche francese) fautore di maggiore occupazione e reddito quale che fosse il destino del cambio. Il tutto senza nessuna convinzione per cui beneficiamo di una prassi mista: cambio debole e politica monetaria "forte", svalutazione e tassi di interesse elevati. Schizofrenia pura!
Dopo tutto ciò si è trovato il modo di premiare uno dei principali responsabili di tanta sagacia suicida con la Presidenza del Consiglio ancorché privo di un qualunque consenso in sede elettorale. Questo è solo un esempio del respiro di cui fa sfoggio la nostra cultura di governo stante che il più delle volte non ce n'è affatto. Pure oggi l'intera politica estera italiana e non solo italiana, è monopolizzata dall'intento europeistico. La parola d'ordine è Unire. E per unire si tolgono frontiere e dogane. E per unire si fanno apparire assurdi i localismi, le etnie e financo le religioni. La verità è che l'Europa Unita è fortemente voluta dai vertici politici, economici, finanziari, industriali d'Europa che vedono nelle frontiere e nelle dogane un ostacolo al loro dispiegarsi e dilagare senza intralci (leggi: costi) in ogni dove.
Noi italiani abbiamo sperimentato sulla nostra pelle che una cosa è fare una unione politica (quella italiana ad esempio) ed un'altra è unire le popolazioni interessate. Così come all'unità d'Italia non è seguita l'unità degli italiani, che invece sono diventati ancora più distanti di quanto non lo fossero un secolo fa, così l'unità dei potenti d'Europa non significa affatto unità delle popolazioni d'Europa. Questa Europa dei potenti è proprio quella Europa che aumenta la forza e la capillarità dei condizionamenti ed è proprio quella Europa che dà alle diversità culturali, etniche, storiche, sociali, economiche... la massima delle consapevolezze e dunque la determinazione rinnovata di insistere nella propria originalità.
Importantissimo è spendere due parole sul come perseguire la strada che vado delineando. Il modo infatti può grandemente influenzare il risultato: ricominciare con gli incentivi, le assistenze, la fiscalità elevata (magari sacrificata sull'altare della SOLIDARIETÀ) infatti creerebbe un "centro" politico ancora più grande e costoso di quello che dobbiamo oggi finanzia-re. Peraltro qui non si tratta di sostenere conosciute categorie di imprese o cittadini. Non vi sono infatti settori e imprese già operative e sufficientemente "pesanti" cui affidare il compito di trainare il decollo. Né è opportuno conoscere al politico della nuova scuola quella facoltà divinatoria che si voleva riconoscere al vecchio, e cioè la capacità di individuare a mezzo delle proprie facoltà mentali quale possa essere il settore che il mercato riterrà essere bastevolmente forte da poter trainare l'intera economia nascente. E non è opportuno per la impossibilità oggettiva di conoscere cosa richiederà il mercato nel futuro anche prossimo.
Si deve puntare invece su una pluralità oggi ampiamente imperfetta da costruirsi sulle forze ancora parzialmente inespresse ma vive e reali, prontissime a ricoprire il ruolo che la loro validità gli assegnerà.
La loro dimensione è quella degli investi-menti che scatterebbero appena si individuasse un settore o una zona libera dai gravami fiscali o burocratici che imbavagliano ogni iniziativa e costringono chi ha mezzi finanziari o a prostituirsi nella sottoscrizione del debito pubblico o a cercare altrove la opportunità che cerca.
Dunque l'obiettivo è quello di creare un "ambiente" socio-economico che consenta a chiunque abbia volontà di lavorare e idee pro-iettate nel futuro (e nel Sud questa è una materia prima di cui disponiamo a iosa) di realizzare i propri programmi senza che la sua opera venga gravata da pesi diversi da quelli propri connessi con il rischio-impresa.
Tutto ciò significa deregolamentazione spinta e defiscalizzazione massima.
Per salvare anche il gettito erariale potranno riconoscersi questi privilegi o a settori merceologici definiti, o a precise categorie di imprese, o alle ditte di nuova costituzione naturalmente meridionali, oppure ancora preferibilmente ad aziende che siano o si insedino in spazi che si vogliono sviluppare e che si reputino trainanti.
Si viene così a formare una corazza economica attorno al fragile "guscio" di queste aziende in cui si ripone il futuro del Sud, guscio che ricostituisca a loro vantaggio quella protezione di cui agli albori della industrializzazione han-no goduto tutte le aree e le aziende oggi considerate all'avanguardia in tutto il mondo. Contemporaneamente si creano a loro vantaggio quelle economie esterne che sono presenti nelle aree più fortunate.
Questo tipo di normativa è di così palmare validità che oltre a "convincere" i meridionali ad intraprendere la strada del rischio porterà anche mezzi finanziari e capacità imprenditoriali non locali ad insediarsi nelle aree e nei settori più promettenti. Questo costituirà un beneficio o un pericolo potenziale. Dovrà il politico calibrare la nuova normativa in modo che i primi sopravanzino i secondi.
Non dobbiamo noi qui indicargli nei particolari il dettato normativo a farsi; essenziale comunque dovrà essere una esemplificazione dell'accesso al mondo delle imprese sia sotto il profilo burocratico sia sotto quello del costo, in modo che l'imprenditore torni alla sua funzione originaria di capitano di impresa e non di burocrate e men che meno di gabelliere o di esattore di decime da girare alla parrocchia di turno. E quella la figura economica di cui il Sud ha bisogno ed è quella la funzione che è mancata fino ad oggi mortificati come siamo stati prima dalla mancanza di mercati, poi dalla offensiva presenza in loco della grande azienda (rapinatrice di menti, braccia, capitali e sbocchi commerciali), ed infine dallo Stato fiscale e burocrate.
L'altro pilastro della espansione economica risiede nell'aspetto finanziario. Per il politico questo aspetto si presenta nella duplice veste di finanziamento degli investimenti produttivi e di finanziamento dell'acquirente del prodotto fini-to, specie quando si tratta di grosse opere (edilizia), di beni durevoli o di esportazioni.
Il ruolo del politico diventa determinante quando si tratta di avvicinare la struttura finanziaria (Banche, Borsa, mercato obbligazionario) al potenziale utente della stessa. Condizione essenziale per soddisfare entrambe le esigenze di finanziamento esposte è una presenza delle istituzioni finanziarie più capillare nel territorio e una molto maggiore economicità dei servizi delle stesse, cose che vanno garantite anche attraverso la costituzione di un fondo rischi interbancario che con costo minimo riesca ad azzerare la ragione di fondo che porta oggi le aziende di credito a fornire denari più a buon mercato ad industrie non meridionali (che peraltro si stanno rivelando molto meno solvibili di quanto la loro forza contrattuale non facesse intendere). Ci vuole una normativa più snella del prestito obbligazionario, l'apertura di borse valori azionarie ed obbligazionarie... Tutte cose cioè che Paesi anche piccoli posseggono ed utilizzano con grande beneficio da tempo spesso immemore.
Discorso a parte merita il rapporto interregionale ed interstatale. La fornitura di grandi opere pubbliche o private a clienti esterni alla economia meridionale non potrà avvenire senza una certezza degli ambiti normativi in cui operare. Dovrà dunque essere stimolata nelle aree in cui vuole estendersi la presenza dell'imprenditoria meridionale l’introduzione di un testo unico civilistico sul modello del nostro codice civile e tutte le disposizioni attuative che diano all'operatore meridionale la garanzia certa della tutela giuridica del proprio investimento, del proprio lavoro, e dei frutti che ne dovessero rivenire. Immediatamente dopo l'Ente pubblico meridionale dovrà preoccuparsi di fornire all'area partner (cito un esempio per tutti: l'Albania), quella consulenza necessaria alla stabilizzazione di elementi fondamentali della vita economica di una collettività umana: la moneta, i prezzi, il costo del lavoro... Si pongano cioè le basi per una compatibilità dei sistemi economici vicini che possono risultare preziosi in momenti forse anche vicinissimi di maggiore integrazione tra le varie economie. L'assenza di queste certezze che per noi sono elementari ha scoraggiato ogni iniziativa in queste aree ma la nostra cultura economica, sociale e giuridica e le potenzialità parcheggiate nelle nostre Università sono tali da permettermi di non avere dubbi sulla possibilità di porre in essere quanto necessario in brevissimo tempo, qualora la volontà politica si esprimesse in tal senso.
Come si vede quel che manca è la precondizione politica a che i meridionali esprimano la imprenditorialità di cui sono capaci. La recessione in cui ci siamo imbattuti non è un fatto ciclico banale. Essa è troppo profonda per non lasciare cicatrici. L'economia che ne uscirà sarà mutilata di molte sue parti, sicuramente troppe perché la nuova società assomigli alla precedente, né sappiamo quanta vitalità conserveranno quelle rimanenti. I catastrofisti di qualche mese fa avevano visto più che bene. Inoltre l'Italia, quella sviluppata, è, strutturalmente, meridione di un suo Nord ben più spietato, forte e famelico di quanto non sia il nostro, per cui vi sono seri dubbi sulla sua capacità di uscire dal tunnel in cui ci siamo imbattuti con una struttura produttiva simile a quella oggi in pericolo. Infatti le aree globalmente più forti (Giappone, Germania, Area del Pacifico...) stanno scaricando sulle aree più deboli (e il Nord Italia lo è sia sotto il profilo aziendale strettamente inteso ma anche sotto quello del peso politico che si porta dietro debito pubblico e sotto quello della cultura politico-economica governativa) i costi che la recessione sta esigendo in termini di fallimenti e di chiusure di aziende.
E quando si tornerà a respirare aria di ripresa, questa si tradurrà dapprima in maggiori profitti per le aziende e per le aree attrezzate a cogliere i frutti della ripresa poi, quando e se si dovesse pervenire in quelle aree alla piena utilizzazione dei fattori produttivi, vi sarà un ampliamento anche verso il Sud d'Italia della corrente di do-manda. Solo allora al Sud arriverà una piccola quantità di briciole che per avere un senso dovrà trovare una struttura di aziende capace di metabolizzarle e ricavarne duraturi vantaggi.
Per cui le ferite di questa recessione sono ferite che si rimarginano molto lentamente per non dire che non si rimarginano più. Per sottolineare ancora più marcatamente questo concetto vorrei spendere qualche parola di commento sulla politica attualmente seguita dalle autorità italiane.
Il risanamento della finanza pubblica può ottenersi sia attraverso la sottrazione di mezzi finanziari all'economia e, in ultima analisi alla domanda globale, sia attraverso un aumento, quanto meno nominale del reddito. Ora, se una concezione "ragionieristica" delle cose italiane farebbe propendere per la prima opzione un approccio più squisitamente politico fa capire che solo attraverso una politica inversa di sti¬molo della domanda si può pervenire al risanamento.
Purtroppo oggi governano i ragionieri e le conseguenze di una riduzione strutturale della domanda sono sotto gli occhi di tutti, se essa permane per ancora qualche anno comporterà che il malato morirà anche se il medico proclamerà che "l'operazione è riuscita". Il vuoto che sarà lasciato dalle chiusure di aziende, dalla disoccupazione "irrecuperabile" che si sformerà, dall'aumento delle assistenze, costituiranno un fardello che impedirà alle aziende che rimar-ranno di cogliere significativi vantaggi da eventuale ritorni di domanda internazionale. E pensare, a quel momento, di rimettere in piedi una struttura produttiva che possa essere all'altezza della domanda nazionale ed estera è solo utopia per gli investimenti necessari, per le capacità umane da assemblare, per il marketing necessario... Dunque imperativo irrinunciabile deve essere la conservazione del tessuto aziendale esistente quale che sia il destino della finanza pubblica e quale che sia quello del cambio, e torno a ripetere non solo per le conseguenze inaccettabili sul piano occupazionale ma per la ragione strategica di sopravvivenza del sistema economico italiano e specificatamente meridionale.
Viene da chiedersi quanto il reddito va stimolato, con quali mezzi e quali potranno essere le conseguenze di un eventuale cedimento del cambio o del livello dei prezzi.
Il reddito deve crescere in modo che la sua dinamica nominale (crescita reale più inflazione) sia superiore alla dinamica del debito pubblico (livello del costo del servizio del debito). Per ottenere questo bisogna agire sull'importo totale di quest'ultimo offrendo al mercato i titoli da privatizzare in cambio di titoli di Stato e solo di questi ultimi.
Questa operazione di privatizzazione e di conversione volontaria del debito conduce ad una riduzione della "carta" in circolazione per cui ad una grande lievitazione della pressione della domanda di titoli. Ne discenderà un generalissimo miglioramento del clima finanziario con tassi in discesa su tutte le scadenze anche se l'inflazione dovesse essere in crescita, e perfino se dovesse essere più elevata dello stesso livello degli interessi.
Dal lato del reddito va compreso che la svalutazione porta ad esaurire le riserve di produttività tecnica inespresse per cui diventa imperativo categorico aumentare le potenzialità produttive installate a mezzo di investimenti. Questa esigenza si porrà in ogni caso qualunque dovesse essere la politica economica purché il cambio permanga a livelli favorevoli all'export. L'ottenimento di questo risultato è ottenibile sia con il suddetto miglioramento del clima economico, sia con la instaurazione di zone franche che fungano da locomotiva economica per quelle aree d'Italia che hanno grosse riserve di braccia inutilizzate. Ma assieme a questo bisognerà imboccare un lungo processo di defiscalizzazione e deburocratizzazione che investa tutto il sistema Italia e che si nutra dei benefici che il lievitare impetuoso del reddito renderanno disponibili.
Infatti la riduzione del costo del servizio del debito, l'avvenuta svalutazione, l'introduzione di zone franche, combinate tra loro provocheranno una marcata lievitazione del reddito reale e nominale e dunque del gettito accompagnati da una marcata riduzione del deficit pubblico. Questi vantaggi non vanno usati per ragioni assistenziali, incentivi, ...ma per ridurre la fiscalità complessiva cosa che consente di migliorare permanentemente i costi dell'azienda Italia senza dover ricorrere periodicamente alle svalutazioni. Cosa che dovrebbe essere il compito. basilare dello Stato.
Se correttamente impostate queste tre linee di azione non producono cedimenti autonomi del cambio e dunque neanche pressioni inflazionistiche. E probabile però che il molto forte tono della congiuntura porti ad elevare la domanda totale. Questa domanda, come detto, troverà nell'espansione della capacità produttiva le risposte che chiede senza spingere soverchiamente sul livello dei prezzi.
 Purtroppo, invece, è da attendersi un lungo periodo di gestione ragionieristica e monetarista della crisi e dunque lo scenario più probabile sarà quello più nefasto che si possa pensare fatto di elevata fiscalità, elevata disoccupazione, elevati tassi reali di interesse, basso livello della domanda.
Perciò il Sud, che di tutta la catena descritta è l'anello in assoluto più debole, deve imperiosamente individuare una sua strada, non ostile a nessuno, ma non di meno originale, forte e feconda. La situazione economica interna ed internazionale è tale che non è probabile né possibile che qualcuno venga qui a risolvere i problemi nei quali versiamo e verso cui andiamo.
Né, come abbiamo visto, si intravede una fine promettente e vicina della recessione meridionale. Né la sua fine andrà a vantaggio di coloro che oggi sono deboli. L'inizio della ripresa andrà ad esclusivo vantaggio di chi in quel momento sarà sul mercato attrezzato per raccogliere quei frutti. Noi siamo tagliati fuori da ogni possibile beneficio e conserviamo la vulnerabilità dei deboli.
Per come siamo combinati possiamo attenderci solo un aggravio della nostra periferializzazione dal mondo dei Paesi sviluppati. I nostri governanti lo sanno ma si guardano bene dal farcene partecipi.
E francamente mi sembra inaccettabile.
Le capacità dell'uomo del Sud sono sotto gli occhi di tutto il mondo: ovunque siamo andati la nostra operosità non è stata seconda a nessuno: nelle Americhe, in Europa, in Africa, abbiamo fondato imprese, partecipato alla conduzione a tutti i livelli di quelle che abbiamo trovato, abbiamo conservato anche lontanissimi da casa l'indole, il gusto, la cultura, le tradizioni di sempre; costituiamo modello per milioni di persone al di là del mare, conserviamo capacità tecniche e scientifiche di prim'ordine, abbiamo masse di lavoratori che non attendono altro che di lavorare e con tutto ciò continuiamo a vedere il nostro tessuto socio-economico andare alla deriva per la mancanza di un indirizzo e di una volontà collettiva forte e consapevole.
I nostri valori originali fatti di onestà, operosità, fecondità, si sintetizzano in un umanesimo che non deve farsi calpestare dai biechi interessi altrui o dalla cecità dei politici incapaci e corrotti che ci hanno condotto a questo passo.
Questa rifondata consapevolezza deve guidarci a riconquistare la coscienza del nostro ruolo e del nostro futuro di cui dobbiamo tornare ad essere gli unici responsabili ed artefici.
Canio Trione

venerdì 1 aprile 2011

"Le garanzie bancarie" di Canio Trione (24/03/11)


 Fino a che le banche (italiane e di tutto il mondo)   accantoneranno a garanzia delle loro obbligazioni delle riserve denominate in titoli governativi, la stabilità e la solvibilità del sistema creditizio riposerà non sulla solidità economica delle attività bancarie ma sulla forza giuridica del debitore Stato. Sembra meglio ma è molto peggio.
La bontà e quindi affidabilità degli investimenti realizzati attraverso il sistema bancario, che dovrebbe essere la prima e l’ultima garanzia della solvibilità delle banche, diviene secondaria dato che le banche preferiscono - e sono obbligate in forza del dettato normativo vigente- a detenere titoli pubblici; la forza di questi titoli non risiede nella probabilità di ritorno degli investimenti realizzati dalle banche ma nella cogenza della legge fiscale.
È evidente che il passo verso l’autoritarismo è breve: ogni crisi legittima l’azionamento della leva fiscale per rinforzare la credibilità delle garanzie delle banche (peraltro, come detto, imposte ex lege), appunto, i titoli pubblici. In effetti in ogni crisi passata ogni affidamento internazionale è passato attraverso l’imposizione del risanamento dei conti pubblici; risanamento ritenuto necessario alla restituzione di maggiore credibilità ai suoi titoli. Risanamento che si è realizzato con un rincaro della tassazione per imposizione esplicita delle organizzazioni finanziarie internazionali a ciò deputate istituzionalmente.
Questa situazione porta senza dubbi alla progressiva estensione dello spazio occupato dall’Ente pubblico tendente a totalizzare l’occupazione dell’economia. È altresì evidente che la fragilità del sistema cresce al crescere dello spazio occupato dallo Stato nell’economia. Infatti la fragilità è tanto più grande quanto più piccolo è il Pil creato dalla componente privata dell’economia. Se cioè lo Stato occupa spazi sempre maggiori nella sfera economica, così facendo riduce gli spazi dei privati e quindi la capacità di contribuzione di questi ultimi: riduzione della capacità contributiva che non può essere palliata con maggiore occhiutezza del fisco, nè si può pensare e ritenere che la credibilità del debito pubblico possa essere affidata alla produzione pubblica di beni e servizi: è un non senso.
Quindi questa chiarezza è essenziale in questo momento storico nel quale le fragilità sono molto più estese di quanto la cultura ufficiale non creda e quindi sono fragilità che emergono improvvisamente ed impreviste minando seriamente la sopravvivenza del sistema.
La verità è che la garanzia del sistema del credito è data dalla capacità dell’economia di restituire i debiti contratti e di onorare il servizio del debito. Punto.
Se l’economia privata non è messa in condizione di onorare le sue obbligazioni certamente non potrà farlo lo Stato non solo perché esso non produce tanti beni e servizi da sostituirsi ai privati nel pagamento dei suoi debiti, ma anche perché non potrà estorcere così tanti soldi ai privati con le tasse perché è già nelle premesse che i privati non sono in grado spontaneamente di onorare l’insieme dei loro debiti. Quindi la credibilità del sistema del credito è affidata al livello della domanda, al livello della competitività delle produzioni e al livello dell’imposizione rapportata all’efficienza della spesa pubblica; cioè alla bontà degli investimenti realizzati. La scorciatoia della imposizione fiscale “extra” cioè aggiuntiva rispetto a quella fisiologica inventata per palliare alla mancanza di spontaneo ritorno del debito (e del prezzo del suo servizio) e di spontanea crescita del gettito è una scorciatoia che “fa finta” che il reddito da tassare ci sia anche se non c’è (magari sottolineando la storia del sommerso o dei redditi da attività criminali da stanare o addirittura da confiscare); scorciatoia che non solo non stimola la crescita del reddito e del gettito e la riduzione delle sofferenze e degli incagli, ma, accrescendo il livello di occupazione statale dell’economia, ne ipoteca permanentemente la capacità di reazione e di recupero.
Quindi la credibilità del sistema del credito per superare le attuali fragilità, dovrà essere poggiata su due cose: primo, sulla bontà del portafoglio crediti delle banche stesse che dovrà essere certificato da ente terzo per il bene della banca stessa, per il bene del sistema finanziario e bancario e per il bene dello Stato che, in sé, certamente non è in nessun caso in grado di garantire alcunché sul piano finanziario. In tempi di rating questa operazione è certamente tecnicamente molto facile. Secondo: su una forma di titolo pubblico più affidabile di quello di debito; del quale parleremo un’altra volta.
Il futuro modello di sviluppo non potrà prescindere dal superamento della garanzia pubblica delle obbligazioni contratte dalle banche realizzata attraverso il titolo di debito: continuare così significa demandare allo Stato e ai suoi debiti il compito di pagatore di ultima istanza dell’insieme dei debiti dei privati!!! Una follia mortale per l’Occidente a meno che la maggior parte del Pil non sia realizzato dallo Stato... ma questo è sovietismo, cioè un’altra cosa rispetto a quello che i nostri politici e tutti noi asseriamo di credere.
Fonte: http://www.aziendabari.it/